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Inter, la rabbia e l'orgoglio: "Lo scudetto non si tocca"

Scardinare una partita non è come vincerla, è più complicato perché gli schemi non bastano e non reggono. Ci vuole uno abituato a correre, non importa cosa succede intorno, uno che prende e tira come Maicon che mette la faccia su una serata isterica e spiazza Buffon e le voci di calciomercato con l’urlo che riaggancia l’Inter allo scudetto: «Io resto qui».

Orgoglio per chiudere una settimana di conti in sospeso e aggiustare il risultato secondo la classifica: doveva essere questione di muscoli, di fisico e potenza e invece no. L’Inter è rimasta in apnea fino a che l’unico brasiliano al mondo capace di conciliare bella vita e grande preparazione, l’ha raccolta dal groviglio e riportata nella posizione di partenza. In testa. Almeno per un po’. E Eto'o riconosce il peso della zampata «vale tutto un campionato, è la rete del campionato, forse anche di più perché ci permette di affrontare il Barcellona più sereni».

La festa per il gol è rabbiosa e a scatti. Sono mani che battono sulle maglie, senso di appartenenza, cerchio chiuso. Mourinho fa persino una linguaccia da monello. Per una volta sono un po’ tutti Balotelli, ingrugniti e fieri e gli abbracci sono quasi scontri spalla a spalla e petto a petto, scambi di «cinque» rumorosi e scenografici e soprattutto ragazzi che corrono, ognuno per i fatti propri. Segnano il territorio. Respingono l’invasione e celebrano una rete pesante che sbuca da una partita impossibile.

È difficile da giocare perché i nervi sono troppo tesi ed è difficile da guardare perché non succede nulla, ma si respira la tensione, l’attesa malata, il passato che ribolle e anche il pubblico non sa come gestire il veleno. San Siro non riesce a decidere se lasciare Calciopoli fuori dallo stadio oppure no e cambia idea di continuo.

Non c’è la controparte, mancano i tifosi avversari e all’inizio è meglio punzecchiare l’esultanza di Ayroldi durante l’ultima Fiorentina-Inter, con lo striscione «Martedì ti è andata male», piuttosto che pensare agli arbitri del passato. Poi però sbucano le scritte su Facchetti, «Giù le mani da Giacinto» e i dispetti sul campo contagiano gli umori della curva che sbraca con un lenzuolo sulle tessere telefoniche svizzere, subito tolto come se qualcuno ci avesse ripensato. Come se non c’entrasse nulla. Ed è così, solo che Inter-Juve non sa da dove partire. O ripartire.

Il primo tempo viene seppellito dai dispetti reciproci, dalle proteste continue e capricciose di entrambe le parti. Gente che si spintona e non c’è mai una decisione che non viene contestata, la sfida tra gladiatori si trasforma in bisticcio da mocciosi e il tempo passa portandosi via brandelli di scudetto. Quello in ballo perché su quello contestato Moratti non vuole più discutere. Timore che ve lo tolgano, quello del 2006? «Proprio per niente» e questo prima ancora di iniziare, quando lui come tutta Italia spera ancora che si possa vedere una partita e non uno sfinimento e il presidente si abbandona alla malizia: «Sul campo ci sarà un confronto sportivo e leale. Fortunatamente non si vivono le falsità che si vivono in altri campi». Però si vedono botte, strattoni, sgambetti e Sneijder, contenuto dalla Juve più di quanto gli sia mai capitato ultimamente, che si agita, parla da solo e manda quasi al diavolo Mourinho che gli chiede conto.

Quando esce Sissoko le squadre siglano una tregua, hanno altro a cui pensare. La Juve deve resistere, l’Inter deve spingere: non ci sono più minuti da passare alle corde a stancarsi a vicenda, non c’è più tempo da buttare negli sguardi cattivi. Ma la partita non si muove fino allo strattone di Maicon. «Resto qui» e indica il nerazzurro che porta e lo scudetto che ci è cucito sopra come se entrambi, titolo e campione, fossero destinati a non cambiare casa. È il messaggio che passa e che trascina via l’Inter da uno scontro che non sa come prendere.

La Juve le ha fatto paura un’altra volta, non tanto per i pericoli reali, più per i fantasmi, le parole, la difficoltà di trovarsi una davanti all’altra. Sarebbe rivalità se gli anni e i tribunali e i sospetti e le intercettazioni non l’avessero ormai inquinata. L’Inter prova disperatamente a essere superiore, come la curva che srotola e arrotola frasi archiviate quattro anni fa. Le accantona solo quando Maicon urla e al gol di Eto’o almeno per una sera le dimentica. Lui si leva la maglia, quasi una liberazione. Come se dopo 90 minuti passati a proteggerla, l’Inter potesse finalmente andare oltre.

lastampa.it
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