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Un'Inter eroica resiste al Barcellona

Ha vinto il sogno, ha perso l’ossessione. L’Inter resiste impavida al Barcellona e gli strappa il Bernabeu dal cuore: toccherà a lei, sabato 22 maggio, contendere la Champions League al Bayern di Louis Van Gaal. L’ultima delle cinque finali dei nerazzurri risale al 1972, addirittura: Ajax-Inter 2-0 a Rotterdam. E l’ultima di una società italiana, al 2007: Milan-Liverpool 2-1 ad Atene. In dieci dal 28’ per l’espulsione di Thiago Motta, l’Inter di José Mourinho non ha fiatato e non ha tremato, salvo negli sgoccioli dell’assedio, dal gol di Piqué alla rete annullata a Bojan per un tocco di mano di Keita: anche queste sono mani de Dios.

Una lezione di maturità, e si badi: non a un avversario qualsiasi, ma ai campioni del mondo, d’Europa, di tutto. Ibra non l’ha mai vista, Messi quasi: serve altro? Non alza il trofeo, l’Inter, dal 1965, quando in panchina si agitava Helenio Herrera, che ai Mourinho moderni avrebbe preparato gli slogan e gli stipendi, e il presidente era Angelo Moratti. Champions, scudetto, Coppa Italia: i cannibali non intendono rinunciare a nulla.

«Venderemo cara la pelle», avevano giurato. Anche noi, devono aver pensato gli interisti. Sono stati di parola. E così, fuoco alle polveri. Mancano, a Guardiola, Puyol e Iniesta; non l’effetto vulcano dell’arena. A essere sinceri, non mi aspettavo, da parte del Barça, un approccio così urlato, così provinciale. Yaya Touré «stopper» è la mossa; Chivu al posto di Pandev, acciaccato, la novità dell’ultimissimo minuto. E allora, niente formula Chelsea. A San Siro, la linea di confine la tracciarono Milito e Sneijder. Al Camp Nou, provvederanno lo spirito di gruppo e la disciplina tattica. L’ingresso di Chivu non schioda Zanetti dalla sua tenda di terzino; se mai, rimescola il modulo, da 4-2-3-1 a 4-3-2-1. Naturalmente, sono Xavi e Keita a impugnare le redini.

Naturalmente, sono Cambiasso e Thiago Motta a tenere d’occhio Messi in prima battuta. La maglia strappata di Ibra è un avviso ai naviganti: e, magari, all’arbitro. La trama non sfugge ai calcoli della vigilia: possesso palla di qua, difesa e contropiede di là. là. I ritmi, lenti, spingono il Barça nella gabbia territoriale tesagli da Mourinho. Pedro tappo su Maicon non sarebbe una brutta idea, se di tanto in tanto producesse anche qualche bollicina. Sembra proprio l’Inter di Helenio Herrera: chiusa ma sveglia, un coltello a serramanico. Messi spalle alla porta, costrettovi dai sentieri intasati, è una vittoria di Mourinho. Non altrettanto, la manata che Thiago Motta, già ammonito, rifila a Busquets. Il rosso diretto non esiste, ma il giallo, più giusto, sarebbe stato il secondo e, dunque, la sostanza non cambia. Mourinho applaude il pubblico, in attesa, immagino, di prendere per il collo Motta, sciocco e indifendibile al di là dello squallido teatro di Busquets.

Voce di popolo: figuriamoci il Barcellona, adesso. Una staffilata di Messi, un volo di Julio Cesar e il resto, mancia. L’Inter si riorganizza attorno a un orgoglioso 4-4-1, in cui Sneijder e Milito si alternano in cima. Eto’o da destra slitta a sinistra, attratto da Dani Alves. Il titic-titoc dei catalani determina ingorghi, crea assembramenti, genera tensioni. D’accordo, Sneijder è a terra, e il Barça se ne frega, ma la forbice di Chivu su Messi rimanda direttamente al wrestling. Guardiola ha regalato un uomo, Gabriel Milito.

Impiega un tempo per accorgersene: Maxwell, se non altro, è un terzino di ruolo. Xavi alza la testa, il problema è che la abbassano gli altri, da Ibra, un traliccio malinconico, a Pedro, un fiammifero spento. Lucio e Samuel non tollerano intrusi, Maicon-Milito e Zanetti-Eto’o sono catene che reggono l’urto. Sneijder cerca di gudagnare metri con un dribbling, Eto’o con una spallata. Le veline Uefa ci parleranno di un possesso palla del Barça addirittura mostruoso, ma siamo al Camp Nou, l’Inter ha uno scudo di due gol e, dal 28’, gioca in dieci. Victor Valdés, non una parata. Okay. Ma Julio Cesar due al massimo. Altro che rimonta.

Come se qualcuno avesse staccato la corrente a tutto il palazzo, e non solo a un piano. Messi si vendica su Chivu e, già che c’è, pure su Lucio. Guardiola licenzia l’inguardabile Ibra e sguinzaglia Bojan, al 18’. Troppo tardi. Fuori anche Busquets, e dentro Jeffren. Per attaccare, il Barcellona attacca. Ma come? Senza fantasia, senza fucili, su esclusiva delega di avversari che lo obbligano a sadiche processioni. Muntari avvicenda Sneijder, esausto, e Cordoba rileva Milito. Il gol di Piqué, sul filo del fuorigioco, piomba improvviso, al 39’, a regalare un epilogo che emotivamente non appartiene all’andazzo sonnolento dell’ordalia. Mariga va a far muro (ciao Eto’o), Bojan segna una rete che avrebbe potuto cambiare la storia. Avrebbe, appunto. L’arena torna vulcano. Non basterà. Il Bernabeu è dei guerrieri di Mou. Giù il cappello.
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