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Un calcio del destino: suicida il figlio di Orrico

Orlando Orrico aveva 40 anni. Lascia una moglie, dalla quale si era separato, e una figlia. Lascia un padre che ieri mattina aprendo la porta della rimessa, nella dimora della Volpara, ha visto un'ombra sopra di sé un corpo sgonfio. Suo figlio si era impiccato, suo figlio, invalido civile, aveva deciso di andarsene nel modo più violento e plateale, il buio della rimessa era il buio nel quale Orlando era finito per la depressione profonda, drammatica che, alla fine, lo ha portato a togliersi la vita.

Il padre si chiama Corrado, Corrado Orrico, l'allenatore più stravagante dell'Inter. La sua avventura ad Appiano Gentile fu una cronaca, più che una storia. Ernesto Pellegrini, dovendo sostituire Gianni Trapattoni, che aveva vinto uno scudetto e una coppa Uefa prima di rientrare alla Juventus, si fece prendere dall'innamoramento per il tecnico di Massa Carrara che aveva portato la Lucchese a sognare e sfiorare la promozione in A, con un gioco, si diceva e si dice ancora, spettacolare. Per spiegare ai contemporanei, ubriachi di Mourinho, chi fosse Corrado Orrico, ricordo che il tecnico massese si presentò ad Appiano usmando l'aria dello spogliatoio: «Devo togliere dai muri l'odore di Trapattoni, qui tutto sa di Trapattoni».

Fumava il sigaro toscano, la qual cosa già lo distingueva in un sedicente mondo di salutisti (alcuni tuttavia dopati). Sfidava un vecchio socio azionista del club, l'onorevole Servello Franco del Movimento Sociale Italiano, presentandosi in sede con una copia de il Manifesto, il foglio del quale condivideva e condivide le idee e l'ideologia: «Mi paragonano a Sacchi? Ma io ho uno stipendio da operaio specializzato, per sentirmi in sintonia con il partito che ho sempre votato». Non esistevano allora le Ilarie D'Amico e compagnie televisive attuali, Orrico doveva sfangarsela con la stampa quotidiana e Gianni Brera lo sbirciava con curiosità, definendolo «il maestro di Volpara» che nel vocabolario breriano poteva dire mille cose tranne quella originale. A forza di bonificare gli stanzoni di Appiano Gentile, Orrico si guardò troppo allo specchio e forse restò vittima di se stesso. Fece costruire una gabbia perché i suoi si allenassero su ritmi altissimi (e di questa idea ha scritto, con Sergio Buso, un libro di tattica e tecnica su minicampo), tentò di molestare il mito di Sacchi: «Il Milan è un assemblaggio di idee altrui. Si ispira a Radice, al calcio olandese, al Brasile e anche al sottoscritto. Quando Sacchi allenava la primavera della Fiorentina Arrigo mostrava ai giocatori le videocassette della mia Carrarese. Il vero innovatore del Milan è Silvio Berlusconi. Lui sì, rompe gli schemi del calcio».

A parte il Manifesto e le idee relative, gli garbava la forza del Cavaliere ma Pellegrini Ernesto lo fece fuori dopo sedici giornate, l'Inter venne eliminata in coppa dal Boavista e fu quella la svolta comica. Un gol di Fontolan nell'andata in Portogallo regalò speranza, il 2 a 1 era rimediabile, Orrico si spinse troppo: «È più facile che crolli il Duomo di Milano piuttosto che noi possiamo essere eliminati». A San Siro finì 0 a 0, il Duomo restò in piedi, Orrico non fu sollevato dall'incarico ma dopo la sconfitta con l'Atalanta, nell'ultima di andata, fu lui a consegnare le dimissioni. Vere, autentiche, rinunciando a 500 milioni, perché la sua testa quella era e quella è rimasta. Con i primi ingaggi seri si era comprato la Treccani «un investimento nella cultura. Seguo l'esempio di mio nonno, è meglio apparire peggio di quello che si è. Se uno ha un'aria educata e intelligente e poi rivela qualche difetto, tutti restano delusi».

fonte: ilgiornale.it
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